1909/09/19 – Anatomie sociali: la donna fuori di casa

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Da la trebbia del 16 agosto 1903 

È proprio vero che la donna fuori di casa è fuori di posto? O meglio, essendo ella uguale all'uomo nella natura, non dovremmo dire che gli è uguale anche in tutti i diritti e doveri; e così ammettere la possibilità di avere dottoresse,le ministresse, le deputatesse, le consigliere, le sindachesse e via di seguito (perdonate un po' le parole; a cose nuove nomi nuovi ci vogliono), come in qualche regno si possono ancora avere, al posto del re, le regine? Io non voglio arrogarmi la facoltà di decidere l'ardua questione. Dirò solo che se il posto proprio per la donna è la casa, la sua cura principale la famiglia, saranno per lei improprie tutte quelle occupazioni che da questo ufficio la distolgono.

Si deve anche notare che il carattere, le forze fisiche ed intellettuali sono diverse nell'uomo e nella donna; quindi ne è diversa la capacità e così dovremo ammettere anche diversità di uffici. Oltre a ciò si danno occupazioni in cui moralmente non può esercitarsi la donna; ma viceversa nessuno potrà negare che vi siano uffici pel cui servizio la sana moralità esigerebbe la donna. Potremo dunque ammettere la donna anche fuori di casa, purché però l'ufficio che ad essa si affida sia proporzionato alla sua capacità fisica e intellettuale, ella possa esercitarlo moralmente e sia compatibile coi doveri di casa. È vero che non tutte le donne sono chiamate ad essere spose e madri, e per queste, le quali d'altronde formano un'eccezione , basterà si verifichino le due prime condizioni, perché possano uscire di casa; ma nessuno potrà dimostrare che non vi sia proprio alcun ufficio in cui si verifichino tutte tre le suddette condizioni.

Del resto la donna fuori di casa è già un fatto ammesso da tutti. Le domestiche ad esempio non sono certo in casa propria. Nessuno riprova le levatrici e le maestre di scuola. E se in queste occasioni si permette alla donna di uscire di casa perché non si potrà permetterglielo anche in altre contingenze? Non sarebbe anzi meglio che, come vi sono le levatrici, vi fossero anche le medichesse per le donne, specialmente in certi casi più delicati? Tutti ammettono le maestre di scuola; ma è chiaro che la donna, prima di divenire maestra, dev'esser istruita; e, anche se non maestre, sta bene che la donna abbia una certa cultura, che la ponga in grado di adempiere coscientemente, e non solo materialmente, i proprii doveri; la renda atta alle relazioni del ceto sociale in cui si trova, e la faccia una compagna proporzionata all'uomo istruito.

Ebbene, io non vedo alcun inconveniente, anzi mi pare più consentaneo che tale istruzione le venga impartita dalla donna anziché dall'uomo.
Tutti sappiamo che ormai gli opifici rigurgitano di donne. È questo un fatto che si potrà deplorare quanto si vuole, ma non sopprimere. Soltanto nella provincia di Bergamo nel 1900 in 248 stabilimenti industriali vi era una popolazione operaia di 14352 uomini e 27921 donne. Ognun vede che è impossibile farle rientrare tutte in casa. Quindi tutto lo studio dev'essere rivolto a provvedere che questa nuova posizione della donna non ripugni ad alcune delle tre condizioni poste più sopra.

E alle scienze, alle lettere, alle arti dovrà attendere la donna? Non facciamo questione di capacità; se essa non è di tutte le donne, neppure è di tutti gli uomini. Ma essa non si può negare in modo assoluto; altrimenti ci starebbe contro la storia di molte donne divenute celebri per questa via. È pur vero che molte hanno il tempo assorbito dalle cure di famiglia o da altre di più diretta utilità. Ma se le donne dell'alto ceto sociale volessero togliere qualche paio d'ore allo specchio, alle mode, alle conversazioni frivole in cui non è sempre sicura la fama del prossimo, potrebbero molto facilmente trovare anche il tempo per quelle ben più nobili occupazioni, con molto frutto e vantaggio proprio ed altrui.
E perché non s'abbia alcuna a scandalizzare dal sin qui detto, concluderemo dicendo che la donna può trovarsi fuori di casa come il prete di sacrestia, cioè dopo avere adempito il proprio dovere e per attendere ad opere di vera utilità proporzionata alla sua capacità fisica, intellettuale e morale, e compatibili cogli uffici più proprii.

C.V.T.

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